Dopo oltre un anno dalla data di uscita originale, dopo che Krasinski ha lottato affinché il film venisse alla luce solo quando sarebbe stato possibile farlo in sala, è uscito A quiet place parte II. Risulta essere assolutamente necessario parlare di parte in quanto il film prende origine esattamente dove si era interrotto il primo tre anni fa. Il botteghino americano faceva ben sperare che l’attesa fosse valsa e che il livello fosse rimasto elevato e fortunatamente così è stato.
Il film si apre su una città deserta, avvolta nel silenzio. Un pick up subentra poi nell’inquadratura guidato da Lee (Krasinski) e subito veniamo proiettati all’origine delle creature, al giorno 1. Quando tutto ebbe inizio ed il mondo andò al collasso. Mediante un adrenalinico piano sequenza veniamo trasportati all’interno del dramma, seguendo la famiglia Abbott divisa; da una parte la madre con i due figli maschi, dall’altra il padre con la figlia. Per mezzo di una regia dinamica subentriamo nel caos del mondo che ancora non sa di essere in rovina. La tensione cresce a dismisura nel momento in cui viene inquadrata la nuca di Regan (Millicent Simmonds), perché da quel momento l’ambiente diviene ovattato: le urla, i gemiti, i bisbigli cessano. Il sonoro mima la condizione della ragazza, perché in una situazione in cui il rumore è una condanna, non percepirlo è una tragedia. Nota di merito è il fatto che la giovane attrice sia realmente sorda e che, insieme alla madre, abbia collaborato per la creazione di un effetto che concretizzasse la sua percezione del mondo.
La scena si chiude sul volto terrorizzato di Marcus, per poi riaprirsi con quella successiva nuovamente sul ragazzo, ma questa volta ci troviamo nello scantinato in cui li avevamo lasciati alla fine del primo film. Da qui ha origine la vera vicenda, la cui trama è in effetti molto semplice: la famiglia si vede costretta ad abbandonare la fattoria in fiamme e a lottare per la propria sopravvivenza senza aver modo di affrontare il recente lutto. Nella ricerca di un nuovo posto sicuro incapperanno in una vecchia conoscenza, Emmett (Cillian Murphy), un padre che ha perso tutto, quasi a volersi colmare reciprocamente i vuoti. Con lui cercheranno di rintracciare l’origine di una canzone trasmessa ininterrottamente alla radio, nella speranza che sia segno di civiltà. Per Krasinski non è la trama lo scheletro del film, come possono essere la struttura dialoghi e sceneggiatura in un luogo in cui la parola è un patibolo? Sono dunque la tensione, la dilatazione degli eventi per mezzo dell’alternanza delle tre storylines che si vanno a delineare, i rumori alternati ai silenzi, i nascondigli che divengono trappole a tempo.
Se nel primo film il vero protagonista era stato il ruolo genitoriale, nel secondo il testimone passa ai figli, costretti a fare i conti con la realtà dopo la morte del padre, costretti a crescere e a ricoprirne le veci. Tale ruolo spetta soprattutto alla primogenita, la quale avevamo precedentemente visto aver un rapporto conflittuale con Lee, ma che ora è alla perenne rincorsa dell’ombra del padre e di un modo per sentirsene all’altezza. Ed è per questa ragione che l’escamotage sonoro che ci fa empatizzare con Regan è così efficacie, perché ci pone nelle sue medesime condizioni, ci obbliga ad agonizzare con lei inconsapevoli di ciò che ci circonda e terrorizzati persino dall’evenienza che una penna cada.
Ogni suono diviene frastuono.
Ogni rumore diventa sventura.
E non importa se provenga dal pubblico, ci si sente comunque responsabili per i protagonisti.
Bizzarro anche come in un film così basato sui silenzi, la colonna sonora ricopra lo stesso un ruolo centrale e riesca a racimolare un suo posto di rilievo, chapeau a Beltrami.
A quiet place parte II è un film che merita assolutamente la visione. Krasinski conferma ancora una volta di essere non solo un ottimo attore comico, ma anche un ottimo drammaturgo e cineasta, alla ricerca del suo timbro autoriale. A conferma di ciò anche il fatto che inizialmente neanche lui volesse un sequel e che anzi avesse rifiutato il compito di dirigerlo, salvo poi rendersi conto di aver ancora qualcosa da dire senza tradire l’anima della propria opera.
Si tratta di un film che va visto al cinema per poter godere appieno non solo della sua fotografia, ma soprattutto del suo comparto sonoro, perché è in quello che si cela il cuore dell’opera ed il fulcro della tensione che tiene incollati alla poltrona.
Perciò, ora che potete, andate in sala, ma mi raccomando: silenzio.
Shhh.
Camilla.