Inutile negare che l’attesa per Blade Runner 2049 fosse alta ed inutile negare che la paura lo fosse ancor di più: paura di una delusione, paura che nella smania di ramake, sequel e reboot si potesse andare a ledere uno dei maggiori cult della storia del cinema, paura che si ottenesse un prodotto superficiale. Eppure le diverse personalità poste alla guida del progetto avevano fatto in modo che, assieme ai timori, potessero svilupparsi anche le speranze. In fin dei conti Villeneuve è uno dei nomi più interessanti del cinema contemporaneo, nonostante abbia una filmografia piuttosto ridotta, nessuna delle sue opere ha rappresentato un flop, ma anzi sono state tutte delle piacevoli sorprese. Ed insieme a lui il fido Deakins con cui aveva già precedentemente, ed egregiamente, collaborato (per intenderci godetevi la seguente carrellata di immagini).
Ed ancora Hans Zimmer, nonostante recentemente non abbia dato il meglio di sè, ma anche Ryan Gosling stesso che, sebbene non mi avesse mai fatto impazzire, ha recentemente iniziato a stupirmi piacevolmente. Ad incrementare poi la curiosità erano stati i corti rilasciati prima dell’effettiva uscita del film, i quali ci mostravano un Jared Leto magnetico ed, ancora una volta, in grado di mostrarci che non ha solo un bel faccino ed una voce intonata, ma che madre natura con lui non si è posta limiti.
Ed eccoci quindi qui a parlare di Blade Runner 2049; il regista confeziona un film che riesce ad essere sia un degno erede del Cult degli anni ottanta, sia una pellicola del tutto indipendente. Il pubblico si ritrova inserito all’interno di una Los Angeles fumosa e plumbea, in cui, come nell’originale, la tecnologia futurista appare come logora e consunta. Gli abitanti vivono oppressi da una città caotica, inseriti in appartamenti impersonali, celle alveolari in tetri grattacieli.
Ed, in quest’ambientazione, il protagonista della vicenda risulta essere l’agente K, impersonato da Ryan Gosling. E riguardo a ciò bisogna dire che il fatto che Deckard appaia unicamente nella seconda metà del film, facilita la creazione di una identità propria della pellicola. Infatti la vicenda di K, replicante dichiarato sin dai primi minuti, permette di sviluppare temi certamente già analizzati in numerosi film e serie (recentemente basti pensare a Westworld), ma in una maniera nuova. Ci si domanda quanto degli individui creati possano effettivamente essere considerati al pari dell’uomo, o addirittura umani, specialmente laddove gli sia concessa la possibilità di procreare. Il film si basa infatti sulla scoperta della presenza di un possibile frutto dell’amore tra una replicante e Rick, la cui specie rimane volontariamente dubbia. Ed allora, in seguito a questo “miracolo” -così viene definito- coloro che erano sempre stati visti come meri prodotti della società, creati per assumersi le responsabilità scomode all’uomo, divengono creature dotate di sentimenti propri, non unicamente sterili macchine, ma bensì fertili basi per la creazione di quella che potrebbe effettivamente divenire una specie, “più umana dell’umano”. Un’evoluzione dell’umanità, rinnegata dal proprio creatore, cacciata e soppressa, a cui non è concesso mostrarsi indipendente.
Da questo punto di vista il personaggio di Gosling appare ben scritto, ci si riesce perfettamente ad immedesimare con esso, si riesce a percepirne i drammi, le speranze ed, ancor di più, le sofferenze quando esse gli vengono sottratte. Ci si trova del tutto connessi con lui quando finalmente pare aver trovato la propria via, quando, come forse gran parte di noi, inizia a credere di non essere solo frutto di uno stampo, prodotto di una serie, ma bensì soggetto dotato di uno scopo, di un individualità, meritevole di una considerazione.
Sebbene la durata notevole, il film non ne risente; le sue immagini scorrono davanti agli occhi dello spettatore come una meravigliosa sequenza di frame fotograficamente perfetti. Le scene girate in quella che par essere Las Vegas, hanno richiamato alla mia mente Macbeth di Kurzel, di cui avevo amato la fotografia avvolgente e, talvolta, eccessiva nei suoi toni sanguigni, la quale fasciava ed inghiottiva i personaggi.
Blade Runner 2049 non può essere paragonato al suo predecessore unicamente perché nato in un’epoca totalmente diversa per la settima arte, in un contesto in cui un film di fantascienza non può aver lo stesso impatto che ebbe nell’82. Ma non per questo va sminuito, ma anzi va apprezzato il fatto che, sebbene diverso, sebbene indipendente, sia stato in grado di ricreare l’atmosfera del primo e, sopratutto, gli abbia concesso la possibilità di una ribalta tra le nuove generazioni. Rappresenta un esemplare, più unico che raro, di sequel degno dell’originale, in grado addirittura di portare vantaggi allo stesso.
L’unica pecca che mi sento di commentare non è la lentezza criticata da molti, secondo me necessaria per una corretta introduzione alle vicende, né una questione di sceneggiatura, ma bensì concerne Wallace.
Wallace è il personaggio interpretato da Jared Leto, villain introdottoci con il primo dei corti precedenti al film. Senza alcun dubbio è un soggetto enigmatico, ma che rimane fondamentalmente in potenza: in atto sarebbe un individuo contorto, non del tutto categorizzabile, ma esso non viene che abbozzato, divinamente grazie a Leto, ma comunque non sufficientemente. Probabilmente, specialmente vista la conclusione, ciò è stato fatto volontariamente con l’idea della creazione di un universo per eventuali futuri film.
Avendo appunto citato la chiusura della pellicola mi sovviene anche un altro spunto di discussione lanciato abilmente allo spettatore: Deckard, rivolgendosi a K, nelle ultime sequenze, gli domanda chi egli sia per lui ed allora torna alla ribalta la domanda sull’umanità dei replicanti. Quanto un innesto può essere considerato inferiore ad un ricordo laddove il soggetto non ne distingue la differenza dalla realtà? Quanto la mancanza di una connessione biologica può significare l’esclusione di Joe (così K si fa chiamare in seguito ad una presunta presa di coscienza sulla sua identità) dall’esistenza di Deckard?
L’ultima scena rimane una delle migliori immagini dell’intera pellicola, poi che solo io abbia pianto in sala è un’altra questione, ma quel corpo disteso, arreso al suo destino, finalmente e per la prima volta sereno, avvolto dalla fredda cinta della neve, ha per me del meraviglioso. Il caldo e sereno abbraccio della morte nella gelida stretta dell’inverno che avanza, lontano dal caos della città, finalmente in pace.
Con Blade Runner 2049 siamo quindi difronte all’ennesima opera degna di nota di Villeneuve che rende il proprio nome ufficialmente marchio di garanzia per noi, popolo di cinefili.
Camilla.