Capone -la carne sotto la leggenda-

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Visto il bizzarro periodo storico nel quale ci troviamo i film la cui uscita era programmata per questo 2020 o sono stati ampiamente posticipati o hanno trovato asilo in piattaforme streaming, questo è il caso del film Capone di Josh Tunk

Tunk è un regista con all’attivo solo tre film, di cui il secondo è stato quell’enorme flop de I fantastici 4, per il suo terzo lungometraggio ha provato quindi a destreggiarsi in un racconto biografico andando a ripescare uno dei personaggi più gettonati tra gli americani, ovvero il noto gangster Al Capone e, per tentare di giocarsela anche meglio, ha scelto per interpretarlo uno tra i più poliedrici e più amati attori in circolazione, Tom Hardy. Quello che però il film vuole andare a raccontare non è la storia che siamo abituati a immaginare nell’ideale collettivo; non sono i fasti e la gloria di un boss all’apice del suo potere, ma al contrario il declino dell’uomo e con esso del mito. 

Tunk sceglie quindi di raccontare quello che è l’ultimo anno di vita del nemico pubblico americano quando, dopo aver scontato otto degli undici anni a cui era stato condannato, Al Capone uscì dal carcere in quanto non rappresentava più un pericolo per via della neurosifilide che lo aveva condotto ad un avanzato stadio di demenza. La storia ha quindi luogo nel 1947 quando Capone ha 48 anni. Si parla dunque di Fonzo (originariamente il titolo del film, per altro più azzeccato, ma non avrebbe probabilmente fatto leva sul pubblico), amorevole soprannome con cui veniva appellato dalla famiglia, perché di Capone non v’è che il ricordo. 

Il regista sceglie di immergere lo spettatore nelle medesime condizioni del suo protagonista, crea dunque un labile confine tra quella che è la realtà e quelle che sono le allucinazioni di una mente ormai deperita. Si susseguono perciò svariate sequenze oniriche nelle quali il passato di Al torna a fargli visita: la violenza, lo sfarzo, il sangue che scorre copioso, i tradimenti, la famiglia, le ossessioni, il denaro, tutto si mescola in un potpourri di immagini che sfilano davanti ad uno spettatore inerte. Tom Hardy si trascina in questa fantasia, barcolla al centro degli inganni della mente di Fonzo; grugnisce, sputa, evacua, urla, borbotta. Se questo una volta era un re non è dato saperlo se non per le voci che alla radio continuano, come in un eterno leitmotiv, a ricordare la più famigerata strage del gangster. Il sovrano viene quindi spogliato di ogni sua ricchezza e ci viene mostrato solo in quanto uomo agli sgoccioli della propria esistenza, incapace di ricordare chi è e talvolta persino in procinto di rinnegarlo. 

Si tratta di un film che sulla carta avrebbe avuto le potenzialità per lasciare traccia di sé, purtroppo Tunk non ha saputo delineare una scelta chiara su quale fosse il fulcro della sua pellicola: dai trailer pareva esserlo la scomparsa di dieci milioni di dollari, ma dai primi minuti di pellicola si sospetta lo sia il misterioso figlio Tony ed il rapporto con la sua famiglia. Possibile che nessuno si sia azzardato ad avvicinarsi al buon Josh per chiedergli:

si ok, Tom è incontinente l’abbiamo compreso e risolto col pannolone, ma famme capì il film di che parla? Kyle MacLachan da chi deve essere protetto? Forse è la bancarotta il problema? E Tony che c’entra?“.

La struttura del film fa poi si che non decolli mai, fornisce spunti, ma non li spolpa, non li analizza, li lascia a macerare per qualche istante per poi dimenticarsene e ripescarli qualche scena dopo senza però arrivare mai ad una conclusione. In almeno due punti pare persino che manchino delle scene di raccordo e sembra dunque di trovarsi dinnanzi ad una serie di Sketch disarticolati tra loro. 

Ho letto definire imbarazzo ciò che si prova davanti alla figura di Fonzo, in realtà lo trovo un termine del tutto fuori luogo, perché per quanto le conseguenze prettamente fisiche della malattia siano fortemente calcate nella pellicola, sono purtroppo tristemente vere, perciò quello che si prova è più un miscuglio di tenerezza e compassione. E questo penso sia dovuto anche al fatto che non si riesce a vedere il sanguinario gangster, ma solo la carcassa che ne rimane quando la ragione gli viene sottratta dalla malattia ed allora il suono degli spari viene rimpiazzato da quello delle flatulenze e l’odore del sangue da quello delle incontinenze, si è quindi davanti solo alla carogna di un mito ed alla triste verità che la malattia non teme nessuno. Non v’è un uomo di cui aver paura, perché ci si trova dinnanzi ad un vecchio che a stento si regge in piedi, che bazzica per casa in vestaglia, pannolone e con una carota in bocca. Perché qui l’unico mostro che v’è è l’inesorabile incedere del corpo verso il deperimento. Tutto ciò a prova del fatto che la leggenda perpetra, la carne marcisce.

Tom Hardy non riesce purtroppo a reggere sulle proprie spalle il peso di un film più confuso sulla propria identità di Capone stesso, ci dona però un’altra sua grande interpretazione anche se, ad essere italiani, ci si rende conto che gran parte dei suoi dialoghi nella nostra lingua non siano altro che una mera imitazione di come l’italiano debba suonare, come se procedesse per assonanza delle parole e sono necessari i sottotitoli per arrivare a capirlo.

“Ti vedo, serpente!”

In ogni caso, salvo ciò, persiste la sua capacità di trasportare chiunque nel proprio mondo fatto di eccessi con il semplice sguardo. Gli altri personaggi interpretati da Matt Dillon, Linda Cardellini e Noel Fisher (il Mickey di Shameless per intederci) hanno poi un ruolo troppo marginale, perché la loro interpretazione abbia effettivamente un peso sulla riuscita della pellicola, quasi come se tutti, persino i membri della sua famiglia, non fossero altro che ulteriori proiezioni della mente di Fonzo.

Appunto bizzarro a sé stante è che la nipote del gangster, contenta che fosse Hardy ad interpretarlo, si è detta speranzosa del fatto che lo zio venisse rappresentato per il grande uomo d’affari che era, ecco, di quello nella pellicola di Tunk non v’è traccia. 

Capone è quindi un un film mediocre che va probabilmente visto unicamente per il suo protagonista, un film incapace di lasciare il segno e che delude proprio per le notevoli potenzialità che aveva. Vige però sempre la regola che qualsiasi opera vada sempre vista, perciò a voi la sala o meglio lo streaming. 

Camilla.

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