Il titolo può decisamente trarre in inganno.
– Cosa vai a vedere?
– Captain Fantastic!
– Bah, un altro di quei film che guardi te con superereoi, superpoteri e “grandi responsabilità”.
Sì, lo ammetto, i film della Marvel mi mandano letteralmente in estasi, ma mi dispiace deludervi, qui niente tutine, niente città rase al suolo, niente combattimenti, almeno non visibili all’occhio umano. Qui i supereroi sono altri, qui le guerre si combattono attraverso silenzi. Qui si parla di una società postindustriale, postmoderna, postcapitalista, che si identifica in tutti noi. Perché noi, qui, come spettatori, siamo i cattivi.
Dai colori che ricorda i film di Wes Anderson, Captain Fantastic è Ben, interpretato da un “sempreinformaAragon-Viggo Mortensen”, un padre decisamente fuori clichés, che vive con la moglie e i suoi sei figli lontano dalla società, lontano dalla Coca Cola, dagli Hot Dog, dalla scuola, dal capitalismo e dal modernismo. Insegna loro ad avere un rapporto primordiale con la natura, con l’esercizio fisico e con la mera conoscenza delle cose. Pasti procacciati, serate intorno a un fuoco a leggere libri di spessore che nemmeno alla Facoltà di Filosofia, sveglie all’alba condite con corsa per i boschi e flessioni.
A causa di un evento che cambia le loro vite, Ben e i suoi figli sono costretti a scendere tra i comuni mortali, perché sì, questo è quello che ho pensato quando ho visto quei fanciulli sfogliare il menu di un fast food e chiedere cosa fosse la Coca Cola, ho pensato: “No, perché? Perché li contamini? Sono così sani, così puri, così limpidi”.
“Devi smetterla di far vivere i tuoi figli così, hanno bisogno di un’istruzione”, gli ammonisce la sorella, seguita da una delle scene che più mi ha colpita: Ben che chiede ai figli di sua sorella, di 9 e 14 anni, se conoscessero The Bill of Rights (documento cardine del sistema costituzionale del Regno Unito) e io, spettatrice, riuscivo a percepire lo stridere delle loro unghie allo specchio, mentre arrabattavano una risposta. Poi chiama sua figlia Zaja, di 6 anni, che recita a memoria l’incipit del documento, fermata dal padre che le chiede non di recitarlo, ma di dire la sua sulla questione dei diritti in Inghilterra. Una scena in cui io, da sostenitrice del motto “so di non sapere”, mi sono raggelata pensando a quanta ignoranza crea la società intorno a noi (oppure a quanto fosse una bimba prodigio quell’esserino).
Un film in cui ci si sente continuamente fuori posto, scomodi nella nostra posizione, in cui dopo averlo visto ci si sente anche a disagio. Un film che va digerito, che va metabolizzato, in cui va capito che cosa realmente il regista Matt Ross volesse trasmettere, o forse no, forse non serve farci troppi ricamini, forse non serve prenderlo come l’ennesima critica alla società di oggi, ma accettarlo così, con inadeguatezze annesse e incluse nel prezzo del biglietto.
Premiato a Cannes e al Festa del Cinema di Roma, Captain Fantastic, nelle sale italiane dal 7 dicembre, è un film che vi consiglio anche solo per rimettervi in discussione, per accettare le debolezze che un “supereroe” può avere, perché di questo si parla, di debolezze, di perdite, di decisioni, sbagliate o meno. Si parla di un padre, che vede un castello, o capanna, costruito con cura sgretolarsi, ma anche di un padre che rinnova e di una famiglia che capisce i valori reali della vita.
La Nicoletta