Freaks Out -La maturità dell’imperfezione-

Home / MOVIES / Freaks Out -La maturità dell’imperfezione-

Freaks Out è la seconda opera del regista italiano Gabriele Mainetti; presentato in concorso a Venezia, il film vuole mostrare, come ai tempi fu per Lo chiamavano Jeeg Robot, che il cinema italiano può spaziare qualunque genere se gli viene concessa una chance.

La pellicola si apre con una fittizia rottura della quarta parete nella quale Israel (Giorgio Tirabassi) si rivolge al pubblico dinnanzi a lui ed indirettamente al pubblico in sala dando il benvenuto nel mondo abitato dai freaks, i fenomeni da baraccone. Da quel momento in avanti quella che viene intrecciata è una trama di per sé abbastanza semplice, ma che grazie ad un corale di personaggi magnetici e frizzanti riesce ad acquisire una propria personalità. Quelli che saranno i quattro protagonisti del film vengono introdotti al meglio delle loro capacità, sul loro terreno di gioco, durante il loro show, ma la fiaba verrà rapidamente e bruscamente interrotta dalla realtà della guerra. Perché la guerra non aspetta nessuno e di certo non risparmia i civili. Cruda e dinamica è la regia nelle prime scene del conflitto: nel caos dei bombardamenti la macchina da presa sguscia tra le polveri e le macerie, scivola tra i cadaveri e i vivi striscianti. Una fotografia dai toni quasi fiabeschi, smorza i toni cupi della storia, generando un clima nostalgico.

Freaks Out è un’opera nella quale i reietti riescono ad avere il loro spazio, in cui agli emarginati della società viene dato uno spessore ed un’importanza ed anzi divengono essi stessi il fulcro. Il film tende a rimarcare il concetto più volte affrontato nel cinema (basti pensare ad una qualunque opera di Del Toro) che i veri mostri non sono altro che gli uomini; non contano le fattezze o le sembianze, quanto gli animi e le idee. I mostri di Mainetti vanno a delineare un disomogeneo, ma funzionante gruppo, al cui vertice v’è la figura paterna di Isreal, il mansueto e realista direttore del circo, che si trova ad essere il “mostro” dell’epoca in quanto ebreo. La vera e propria squadra di questo cinecomic del bel paese è invece composta da Fulvio (Claudio SantaMaria), uomo lupo dotato di disumana forza, arresosi alla sua immagine, nonostante la smodata cultura e nonostante sia considerato all’unaminità la mente del gruppo. Cencio (Pietro Castellitto), giovane albino in grado di controllare gli insetti, che nasconde le proprie paure ed insicurezze dietro ad un esasperato umorismo. Mario (Giancarlo Martini), nano magnetico con ritardo cognitivo che arriva ad intenerire più volte lo spettatore. Matilde (Aurora Giovinazzo), protagonista indiscussa del film, la ragazza elettrica incapace di accettare se stessa e quelle che crede essere le proprie colpe. Attorno a quelli che sono dunque i personaggi principali v’è però una rosa di secondari dotati comunque di un loro spessore, a partire dall’antagonista: il pianista Franz (Franz Rogowki). Anch’egli Freak distante dall’ideale ariano e conseguentemente anni luce dall’accettarsi ed anche incapace di sopportare l’immutabilità del fato che le sue capacità lo portano a conoscere, forse personaggio un po’ troppo macchiettistico in alcuni snodi, ma necessario villain per non banalizzare la contrapposizione tra i “perfetti” ariani e le imperfette vittime della guerra. Vi sono poi i partigiani capeggiati dal Gobbo (Max Mazzotta). Essi, sia nell’aspetto che nelle azioni, sono uomini logorati, deturpati, storpiati dalla guerra e dall’odio, uomini che hanno perduto la grazia ed il tatto, uomini che hanno iniziato a vedersi come carne da macello da lanciare sul campo con l’unico scopo di sterminare i nazisti. Uomini divenuti mostri per via degli eventi.

Freaks out delinea un mondo popolato dall’imperfezione, nel quale però essa diviene il punto di forza dei suoi personaggi nel momento stesso in cui essi sono disposti ad accettarla e a comprendere che forse il bello e l’essere speciali risiedano proprio lì: tra la peluria sul viso ed una pelle troppo pallida, tra il metro e venti ed il terrore del contatto umano. 

Nota di merito va concessa anche all’utilizzo di musiche ben lontane dall’epoca storica in cui è ambientato il film; canzoni sottratte precocemente ai loro anni grazie ai doni di Franz, il quale se ne appioppa i meriti con leggerezza, senza realmente concepire le potenzialità delle sue capacità innate. Nel complesso non è certamente un film perfetto, ma nemmeno pretendeva di esserlo; si tratta invece di un’opera innovativa di cui il panorama nostrano sentiva fortemente il bisogno. A posteriori ci si rende conto che diverse questioni non sono state spiegate o approfondite, come la provenienza delle capacità dei protagonisti per dirne una, ma sono minuzie concentrate soprattutto sul finale che passano in secondo piano nel momento in cui i pregi sono così numerosi. Dettagli sui quali si può sorvolare perché ci si trova dinnanzi ad una pellicola che vuole essere un blockbuster, ma che a differenza di molti suoi simili riesce anche a far emozionare, che è in grado sia di strappare sorrisi sia di commuovere e far versare qualche lacrima. I personaggi non hanno bisogno di macinare minuti sullo schermo per acquisire una propria rotondità, ognuno di loro ha il proprio faretto sul palcoscenico ed ognuno di loro è in grado di coinvolgere lo spettatore. L’opera come essi è in grado di maturare, compirsi e perfezionarsi nel momento in cui accetta sì i propri limiti, ma conosce e perciò sfrutta al meglio il proprio potenziale. 

Consiglio sempre la visione al cinema di ogni film, ma in questo specifico caso vi sono due aggravanti che rendono necessaria la sala: i due anni di moria per la pandemia e il supporto che va garantito ad un regista emergente che sta dimostrando di aver idee e soprattutto di saperle mettere in atto. 

Camilla.

 

happywheels
Recent Posts