Il regista del primo e, a mio modesto parere, unico Saw è anche colui che ha dato inizio alla serie degli Insidious. Il film uscito nelle sale italiane nel 2011 è il capostipite di una saga che ha portato alla nascita del prequel nei cinema in questi giorni. Prequel che forse sarebbe meglio sorvolare, perché fa paura certo, ma ciò che lo rende spaventoso è la messa in scena. E la trama. Insomma: tutto. Il primo Insidious narra delle vicende di una classica ed amorevole famiglia americana appena trasferitasi in una casa nuova in un tranquillo villaggio: lui insegnante, lei compositrice, trascorrono le giornate nella quiete delle loro pacate vite. Questo sino al momento in cui il loro primogenito Dalton non entra in un inspiegabile coma, forse a seguito di una brusca caduta, dal quale pare non volersi risvegliare. I medici non riescono a capacitarsi di quale possa essere la causa scatenante di una tale condizione e perciò rapidamente, quella che era l’esistenza di una serena famiglia, precipita in un incubo. Quello che però era un incubo metaforico diviene, con il procedere dei minuti, sempre più effettivo: nell’abitazione iniziano a verificarsi strani eventi che spingono la coppia a decidere di trasferirsi nuovamente. Nella nuova dimora la situazione sembra inizialmente procedere nel migliore dei modi se non fosse che, ben presto, le oscure presenze che si erano insediate nell’abitazione precedente tornano a palesarsi. In seguito ad un momento di incertezza si arriva poi all’accettazione del fatto che ad essere posseduta non sia la casa, ma bensì il piccolo Dalton. La prima metà del film è forse quella strutturata meglio, vengono rivisitati in parte i vecchi cliché dell’horror classico, specialmente quello della casa infestata con il verificarsi di svariati eventi paranormali; dalla figure che sfuggono rapidamente alla cinepresa, che rimangono in camera il tempo sufficiente ad essere scorte dallo spettatore, sino agli oggetti spostati ed ai bisbigli soffocati in un babymonitor. L’idea di far in modo che ad essere richiamo per le oscure presenze sia il corpo del bambino e non la casa in sé poteva essere un’innovazione sufficiente a rendere Insidious un horror degno di tale nome se Wan fosse proseguito sullo stile della prima ora del film, con un terrore più basato sulla reticenza delle immagini e sugli scricchiolii che sulle effettive creature demoniache. Nella seconda parte il film infatti si perde, la carne messa al fuoco è decisamente eccessiva e la struttura diviene caotica, i personaggi che infestano la casa non vengono giustificati, non risulta effettivamente comprensibile né quale sia il loro modus operandi né quale sia il loro fine. Perché si, vorrebbero impossessarsi del corpo di Dalton, ma in quale modo lo farebbero? Come mai non riescono a raggiungerne l’anima persa nell’altrove? Il tentativo di strafare nelle scene finali rende la conclusione confusionaria e troppo esigente per l’esiguo budget del film che sino a lì si era dimostrato sfruttato egregiamente (vedisi anche la scelta di Wilson e di Byrne per interpretare i genitori), ragion per cui alcune sequenze suscitano più il riso che lo sgomento per via della messa in scena, in particolar modo alludo alla scena in cui il demone principale insegue Dalton correndo a ridosso della parete, stile Prince of Persia de no artri. Un punto a suo favore è però la scelta di Lin Shayne come Elise, permettendo quindi l’inserzione di un personaggio vagamente fuori dagli schemi, in quanto un rapido sguardo agli ultimi anni di cinema non farà sfuggire che di ruoli per attrici sui 60 ve ne siano ben pochi. Al contrario però un problema del film è la scrittura dei personaggi corali; i due assistenti della medium risultano essere del tutto fuori luogo in un contesto orrorifico, ricordando più i personaggi di una commedia kitsch anni 80.
In ogni caso la prima metà si rende comunque sufficiente a reggere la pellicola.
Per quanto concerne il quarto capitolo della saga bisogna concedergli il suo voler rimanere fedele alla matrice del primo, in quanto il problema principale continuano ad essere i personaggi eccessivamente forzati per tentare di farli apparire simpatici. La complicazione è che ad esso si aggiunge una trama che non pare aver ragione d’esistere. Il finale ancora una volta risulta essere il punto di debolezza maggiore, i demoni che con una manata vengono scaraventati dall’altra parte della stanza non li si vedeva dai tempi in cui Hancock non sapeva dosare la propria forza. Per non citare poi un paio di scene trash ad un livello che avrei pensato di vedere solo in The lady, in primis quella in cui una delle ragazze, la classica biondina americana, rimane letteralmente ed inspiegabilmente pietrificata a terra ed un primo piano indugia sulla sua silhouette scossa da un ridicolo respiro affannoso. Apprezzabile invece la scelta di Javier Botan per incarnare la creatura che infesta la casa, con l’idea, sfruttata precedentemente anche da altri registi quali Del Toro, di usufruire della sua fisionomia estremamente longilinea e slanciata dovuta alla sindrome di Marfan. Non a caso a breve sarà Slender-man e nella sua filmografia spiccano per lo più ruoli in film dell’orrore.
Forse il genere Horror rimane il più difficile da portare in sala, sia perché negli anni ve n’è abusato con trame trite e ritrite, sia perché dei jump scare efficaci sono sempre più difficili da ottenere, ma ciò non toglie che di certo si potesse far di meglio. Il primo capitolo della saga era ancora un lungometraggio per il quale valesse la pena spendere qualche parola o per cui provare a trovare qualcosa che lo salvasse, in quanto al quarto nemmeno un miracolo potrebbe permettermi di definirlo un bel film.
Camilla.