WandaVision rappresenta il primo prodotto seriale del connubio Marvel-Disney e, oltre ad avere il peso di tale responsabilità, la serie si è trovata ad essere distribuita ad oltre un anno dall’ultimo pargolo di casa Marvel. Si è trovata a dover far i conti con un pubblico famelico, in astinenza e bramoso di qualcosa che saziasse la sua fame di cinecomic e di ritorno alla normalità. Tutto ciò ha fatto si che le aspettative per la serie, inavvertitamente e forse ingiustamente, salissero esponenzialmente, perciò quello che era nato come un semplice prodotto di intrattenimento, volto a fare da raccordo tra due fasi dell’universo Marvel, si è improvvisamente ritrovato puntati addosso i riflettori e gli occhi di milioni di fan.
Parlare di questa serie non è semplicissimo, non per me per lo meno, perché mi sono ritrovata ad essere infastidita da numerosi fattori sia interni che esterni ad essa. Il modo più naturale che mi viene per esprimere la sensazione che ho percepito nel guardarla, è pensare a quello che devono provare i professori quando si trovano a dover dire “suo figlio è bravo, ma non si applica“.
La trama nasce come spunto innovativo per l’universo nel quale si inserisce e, prendendo cronologicamente posto dopo EndGame, prova ad affrontare il lutto di Wanda concretizzando quelle che sono le fasi che la sua mente sta vagliando: partendo dalla negazione per giungere all’accettazione. Per fare ciò veniamo catapultati a WestView, una ridente cittadina nella quale Wanda e Visione vivono la propria vita all’interno del più lampante esempio e prototipo del sogno americano: le sitcom. Wanda proietta dunque i suoi sogni da bambina all’esterno, creandosi un ambiente che le sia confortevole e che le offuschi la memoria dai recenti eventi che hanno scosso la sua esistenza e che l’hanno privata dell’amore della sua vita. Ma ogniqualvolta un fattore esterno va ad interferire con la patina di perfezione che ammanta il suo microcosmo, è costretta a resettare l’universo da lei creato e ad addentrarsi in un decennio successivo; si parte dunque dagli anni 50 per arrivare a sitcom a noi contemporanee sulla scia di Modern Family.
I primi episodi sono quindi puramente rappresentati da brevi sketch intervallatati da spot con rimandi ai traumi di Wanda, per poi dal quarto arrivare ad un’introduzione a ciò che si trova all’esterno dell’exagon e ad un contesto quindi più familiare per i fan Marvel.
Già dalla messa in onda del primo episodio sono originate decine e decine di ipotesi e teorie create dai fan più sfegatati, basate su conoscenze e contesti provenienti dall’ambito fumettistico e poi nutrite da affermazioni fatte dagli attori nel corso di interviste.
Qui risiede il primo errore della serie.
La Marvel ha deciso di fomentare i fan, non rendendosi conto che aumentare le aspettative avrebbe drasticamente ridotto le loro possibilità di successo.
Ma è al quarto episodio che abbiamo la giocata peggiore: l’arrivo di Evan Peters come Quicksilver. Ora parliamoci chiaro alla luce del finale questa scelta non è giustificabile in alcun modo e questo non perché la mancanza del multiuniverso sia necessariamente una pecca, ma perché è stata solo una presa in giro ai fan. La scelta di un Quicksilver a noi noto non ha reso più realistico il fatto che Wanda sia cascata nel tranello di Agatha (torneremo anche da lei), ha semplicemente bruciato una possibile buona occasione per mescolare finalmente i personaggi Marvel con quelli Fox (cinematograficamente parlando) ed è stata una mancanza di rispetto per chi di queste storie si appassiona. Si è trattata di una scelta furba, ma poco brillante, ci ha fatto credere che quello potesse essere effettivamente Pietro, solo perché noi conosciamo anche un altro universo cinematografico, ma ragionando quindi dal punto meramente di scrittura, fingendo di non aver mai visto gli Xmen, non ha senso alcuno allora che Wanda abbia abboccato così facilmente all’inganno. Quindi è stata una presa in giro ed anche una scorciatoia, pessima combo direi.
Arriviamo dunque ad Agnes, alias Agatha Harkness. Qui va fatta la premessa che chi scrive non conosce i fumetti, perciò le teorie su Mephisto ed allegri compari non sono mai state motivo di Hype o fermento, ma è solo grazie a quelle che, a quello che dovrebbe essere il cliffhanger della serie ovvero la scoperta dell’effettivo villain, non ha lanciato il computer nell’indiganzione. Viene improvvisamente frantumata l’idea fino ad allora costruita che l’anatagonista fosse il lutto che Wanda stava affrontando, per inserire del tutto senza contesto, senza approfondimento, un personaggio del quale non ci vengono spiegati né gli scopi né le ragioni.
Da qui sembra che chiunque stesse scrivendo WandaVision si sia dimenticato dove volesse andare a parare e l’episodio finale ne diventa l’emblema.
Le storylines aperte vengono dunque chiuse frettolosamente, come se dopo aver speso interi episodi in uno stato di totale sospensione, dove non era stato necessario inserire una trama orizzontale, perché era bastato creare un clima di inquietudine e dubbi, il tempo fosse improvvisamente venuto a mancare. Ci si dimentica dunque di Pietro, il quale viene liquidato con una pessima battuta sulle erezioni (Bohner) ed Agatha viene sconfitta al suo stesso gioco nella scena che finalmente ci regala la visione della Scarlet Witch. Persino il fatto che Wanda stessa non abbia alcuna conseguenza per aver soggiogato migliaia di persone per mesi, ha dell’assurdo.
Ma, su tutti, vince il personaggio di White Vision: presentatoci nel penultimo episodio come potenziale meccanismo d’innesco di un ulteriore dramma di dimensioni cosmiche, aizzato dalle voci (diffuse dai creatori stessi) che James Spader (Ultron) potesse averlo doppiato, dopo un breve scontro prima fisico e poi verbale con Visione, se ne va. Basta. Fugge. Via. Gli vengono sbloccati i ricordi, quindi torna effettivamente ad essere mente e corpo del Visione che siamo stati soliti conoscere, ma, benché nel bel mezzo di un conflitto e benché membro degli Avengers, lui vola via. Aveva la macchina in multa? C’era il coprifuoco? Non c’è dato sapere.
Perso dai radar.
Mai più citato.
Avendo visto il making off della serie, la rabbia su come sia stata gestita non può che incrementare, perché alle spalle si trova un lavoro di minuzia lodevole, ma non basta. Come non basta giustificarla con il fatto che sia una serie inserita in un universo in continua espansione, perché in quanto prodotto seriale avrebbe dovuto essere autoconclusiva, essere sufficiente a se stessa, ma con spunti e trame aperte per la fase 4. WandaVision non è in grado di sopravvivere se esulata dal contesto Marvel e ciò è un peccato per due ragioni: uno perché una serie cinecomic che affronta così umanamente il lutto sarebbe stata una perla rara e due in quanto la Disney ci ha già dimostrato la capacità di estrarre da un universo più ampio un soggetto che sia al tempo stesso dipendente ed indipendente dallo stesso. Ovviamente mi riferisco a The Mandalorian; essa è totalmente coerente con la cronologia di Star wars, ha rimandi in ogni direzione, ma è godibile e visionabile anche da un profano ai film e introduce personaggi ad alcuni già noti (Ashoka), ma li rende apprezzabili anche da chi non conosce l’universo espanso (io mi ci sono avvicinata in conseguenza).
WandaVision è una serie ben fatta va sottolineato, ma è sprecata. Se non avesse fornito basi interessanti, non avrebbe neanche dato la necessità di analisi e critiche così approfondite. Se non si fosse venduta come una serie innovativa e si fosse da subito amalgamata al contesto Marvel, nessuno avrebbe mai preteso nulla da lei, se non l’intrattenimento.
Oltre alle lodi per come è stata messa in scena, per le cui specifiche vi consiglio di guardare il primo episodio di Assembled, bisogna ringraziarla per aver finalmente dato una profondità al personaggio di Visione e per aver dato spazio all’amore che lo lega(va) a Wanda. Visione risulta essere il personaggio più umano nell’intero universo Marvel, nonostante di umano nulla abbia e riesce quindi ad ottenere lo straziante addio che forse si sarebbe meritato prima. La sua caratterizzazione è l’aspetto migliore dell’intera serie, nota di merito va anche data al lavoro fatto da Bettany che affianca un’altrettanto lodevole Olsen. Va inoltre citato il reparto dei costumi, meraviglioso sia nell’evoluzione attraverso le decadi della televisione americana, sia nella scelta dell’aspetto finale della Scarlet Witch.
Alla fine di questo sproloquio quindi il succo è che WandaVision vada vista per la passione che c’è stata nel reparto tecnico, per aver un quadro più ampio dell’analisi di due personaggi spesso poco considerati nel contesto filmico e perché probabilmente neanche i suoi creatori l’hanno vista come qualcosa di più ampio di un ponte per la fase 4, perciò sarà indispensabile per non chiedersi da dove sia sbucato l’albino de Il codice da Vinci.
Camilla.